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Guido Lombardi - Il Ladro di Giorni: «Una storia che aiuta a crescere»

Aggiornamento: 21 gen 2021


20 aprile 2020

di Valentina Galdo


Guido Lombardi, regista, sceneggiatore e romanziere italiano vincitore del Leone d’oro del futuro alla 68° Mostra del Cinema di Venezia con il lungometraggio Là-bas - Educazione criminale. L’ultimo film presentato al Festival del Cinema di Roma, Il Ladro di Giorni, mi ha davvero emozionata tanto da volerlo intervistare per provare a comprendere ancora meglio la realizzazione dell’opera cinematografica. Il Ladro di Giorni prima di essere un film è un libro, dove l’autore riesce a trasmettere con la scrittura la parte più sensibile e intima di sé stesso.


Nella società in cui viviamo il tempo non sembra essere dalla nostra parte. Tutto corre velocemente e sembra che non riusciamo ad afferrare i momenti, forse, più importanti. Il Ladro di giorni è un road movie, come mai la scelta di utilizzare questo genere per mettere in evidenza il rapporto tra padre e figlio?

«Rappresenta il viaggio che avrei voluto fare con mio padre. Non so se ti è mai capitato di rimanere da sola qualche giorno con uno dei tuoi genitori. Diciamo che, estrapolati dal contesto familiare nel quale abitualmente si vive, si ha la possibilità di conoscerli meglio e raggiungere un’intimità maggiore. Ho deciso, a livello narrativo, di raccontare il rapporto tra Salvo e Vicenzo in quattro giorni, sulla base della mia esperienza. Con mio padre, a volte, mi capitava di intraprendere qualche viaggio nel quale riuscivo a conoscerlo sempre un po' di più.»


Un bambino è meglio di una pistola, questa frase ad inizio film può far presagire che il padre voglia “usare” suo figlio per qualcosa di pericoloso e Vincenzo non è certamente una buona influenza per Salvo. Perché utilizzare la parabola del padre criminale per raccontare la storia?

«Nella fase di crescita, di ogni bambino, arriva un momento nel quale ti allontani dalla famiglia affacciandoti al mondo. Il ruolo del genitore è di istruire, di far rispettare le regole e imporre alcuni limiti, ma quando ti affacci al mondo sei da solo. Esci di casa più spesso e ti ritrovi in situazioni nelle quali non sei accompagnato dai genitori. In quel momento, tutte le regole che ti hanno insegnato le devi verificare di persona. Se pensi, quando sei alle elementari o alle medie, quando la professoressa esce dalla classe incarica uno studente di scrivere sulla lavagna chi fa rumore. La lavagna è divisa in buoni e cattivi e, solitamente, l’alunno al quale spetta il ruolo da giudice è seduto al primo banco. Ingrato compito. Come se verso quell’età devi decidere da che parte stare. Ho voluto utilizzare la parabola del padre criminale proprio per questo, una scelta netta: essere buono o essere cattivo?»


Ma non sei troppo grande per giocare con il robottino? Dopo questa domanda da parte del padre, Salvo ci rimane male e lascia cadere il giocattolo fuori dal finestrino della macchina. Secondo te, il rapporto fra padre e figlio come può trovare un equilibrio?

«Quell’episodio è legato ad uno stratagemma narrativo: abbiamo deciso di utilizzare un oggetto (il robot) per esprimere la continuità del rapporto padre-figlio, un rapporto interrotto dall’arresto del padre quando Salvo aveva solo cinque anni. Ricordarsi il nome del robot, da parte di Vicenzo, significa ristabilire la continuità nel loro legame, come se gli dicesse: sono qui di nuovo per amarti. Il rapporto con i genitori si è evoluto negli anni, se pensi alla generazione dei miei genitori, buona parte di essi ti educavano con una certa distanza e severità. Anche a livello fisico, baci e abbracci erano rari rispetto alla generazione più recente.»


Quali difficoltà hai trovato nel riuscire a rappresentare quello che avevi scritto nel libro e trasferirlo nel film?

«Premetto che sono molto contento del film, ma scrivere un libro è qualcosa di intimo. Sei in una stanza da solo e sebbene lavorare con altre persone arricchisce sempre, scrivere un libro è tutta un’altra storia.»


Tutti nella vita ci troviamo davanti ad un bivio, Vicenzo sceglie di voler cercare il famoso ladro che l’ha allontanato da suo figlio per così tanti anni. Cosa spinge Vincenzo a non dimenticare? Perché non riesce a chiudere con il proprio passato?

«Vincenzo percepisce di aver subito un’ingiustizia. Questo senso di disagio è insito nell’essere umano, secondo me. Come se dovresti riparare ad un torto che hai subito. Qui si parla di un criminale che ad un certo punto si rende conto come l’unico responsabile di quello che è accaduto sia lui. Questo passaggio gli permette di diventare un uomo, staccandosi dal bambino che era. È un film sulla crescita, dove padre e figlio crescono contemporaneamente ed insieme, uno fa crescere l’altro.»


La scena in cui Salvo prende in mano la situazione, non facendo prendere la pistola al padre per evitare un conflitto a fuoco, dimostra la sua maturità e freddezza nel mantenere la calma ed agire. Si può dire che, alle volte, i bambini sono più maturi degli adulti?

«Sì, in quel momento Vincenzo si rende conto di come Salvo sia più adulto di lui. E’ un momento fondamentale, proprio perché a fine film il padre deciderà di non sparare, preferendo crescere suo figlio piuttosto che vendicarsi.»


Il Ladro di giorni è colui che ha fatto andare in galera Totò, Vito e Vincenzo. Perché la scelta di intitolare il film così?

«Perché tutto ruota intorno al tema della crescita, crescere significa assumersi la responsabilità delle proprie scelte. Quando scegli hai tutti gli elementi per valutare dove ti porterà quella decisione. Se prendi in mano una pistola non puoi non sapere quali saranno le conseguenze. Nella scena finale, quando Vicenzo scopre il motivo, a dir poco banale, per il quale era finito in carcere è sbalordito. Riccardo Scamarcio è stato bravissimo a rendere le emozioni di quella scena, utilizzando molto il viso e dicendo, quasi sottovoce: non ci posso credere. Psicologi e sceneggiatori chiamano questo momento di “illuminazione” insight, e il ladro di giorni è proprio colui che ti fa perdere tanti momenti di felicità dove tu sei convinto che la colpa sia degli altri ma in realtà è tua, fai un passo in avanti e riprendi in mano la tua vita.»


Per quale motivo hai utilizzato l’elefante e il Cristo come tatuaggio e la metafora del pirata con cui Salvo identifica il padre?

«Salvo per anni vive in una gabbia d’oro, orfano del padre, crede che l’unico modo per farsi amare dagli zii è quello di essere un bravo studente, il primo della classe. È convinto che attenersi alle regole lo ripagherà con l’affetto dagli zii. Poi, si confronta con suo padre, che tutto quello che fa è andare contro alle regole. Salvo, si trova ad un bivio, come se dovesse scegliere se diventare un pirata oppure no. L’elefante è il simbolo della memoria e, come afferma Vicenzo, l’impossibilità di dimenticare chi gli ha fatto del male. Per quanto riguarda la tradizione religiosa, un tempo i carcerati e i marinai si tatuavano, in base al proprio grado di coinvolgimento nella criminalità, delle figure cattoliche. Il boss aveva il Cristo mentre il luogotenente la Madonna.»


L’inquadratura di Riccardo Scamarcio all’interno del camioncino, quando vede il professore, crea un certo patos. Come sei arrivato alla scelta di questa inquadratura per evidenziare un momento così cruciale del film?

«La scelta di utilizzare quel tipo di inquadratura, è stata dettata dalla necessità di voler rappresentare un momento intimo, chiuso fra padre e figlio interrotta da qualcosa che accade all’esterno. Può capitare di voler fare delle inquadrature funzionanti più profonde, analizzate e tu sei stata brava a capirlo, in questo caso svolge una funzione simbolica.»


L’ultima scena in cui Salvo sta per tuffarsi dal trampolino, la riflessione che fa, è poesia pura tanta verità in semplicissime parole. Quanto tempo hai impiegato per realizzare questa scena?

«Grazie al produttore, Nicola Giuliano, abbiamo immaginato che Salvo dovesse superare questo trauma, la paura del tuffarsi, nata da quando Vicenzo l’aveva abbandonato. Il superamento di quella ferita doveva essere il finale. Il padre assolve la sua funzione, restituendo al bambino quel coraggio che gli era mancato per così tanto tempo. Era necessario che Salvo fosse da solo sul trampolino e che il padre gli fosse vicino, ma in maniera diversa. La bravura di Daria D’Antonio, direttrice della fotografia, nello scegliere di riprendere la scena con il drone è stata perfetta. Augusto ha recitato durante la seconda settimana, perché avevamo trovato la piscina di Bolzano disponibile a solo un’ora di distanza da Trento. Ero molto spaventato perché si trattava della scena finale, ma Augusto è stato eccezionale. Nonostante si trattasse di un giovane ragazzo che recitava per la prima volta un film, riuscì a restituire alla seconda settimana di riprese, la forza del finale. Paradossalmente, quando lo vidi uscire dalla piscina mi sembrava che fosse passato un anno. Un talento.»


Avevi in mente altri modi per far terminare il film? Secondo te, come avrebbe potuto, Vicenzo, ristabilire il rapporto con il figlio se non fosse stato ucciso?

«Il motivo per cui Vincenzo muore è, perché in alcuni casi certi personaggi devono morire, da un punto di vista drammaturgico. Il finale non poteva essere diverso, assolvendo al suo compito, doveva permettere a Salvo di proseguire con le proprie forze nella sua vita. Un personaggio si realizza nel momento in cui arriva alla fine del suo ciclo. Vincenzo riporta il coraggio a Salvo, indipendentemente da quello che fa ma semplicemente per quello che è.»

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