Lorenzo Richelmy:«Vita e recitazione, due binari paralleli»
- Valentina Morena
- 20 gen 2021
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 22 feb 2021
14 gennaio 2021
di Valentina Galdo

Era il 2008, quando Lorenzo Richelmy superò il provino per la serie di Canale 5 I liceali, aveva solo diciassette anni ma il richiamo per la recitazione si faceva già sentire. Un amore nato a teatro, per gioco, che nel corso degli anni sarebbe diventato un vero e proprio lavoro fatto di sacrifici, pazienza e tanta determinazione. Se il ruolo da protagonista, Samuel, nel film Il terzo tempo di Enrico Maria Artale, gli permette di non vergognarsi più a definirsi “attore”, è con Marco Polo, la serie televisiva americana Netflix, a puntare più in alto. Una carriera che gli ha permesso di lavorare accanto a grandi attori quali Toni Servillo, Gabriel Byrne, Pierfrancesco Favino, Claudia Gerini e Luca Barbareschi. Gentile, spiritoso e determinato Lorenzo Richelmy non si prende troppo sul serio e crede che nella vita bisogna sempre trovare il giusto compromesso.
Quando ti sei reso conto che la recitazione sarebbe diventata il tuo lavoro?
«Avevo quindici anni quando chiesi a mia madre di segnarmi ad un’agenzia per fare dei provini, lei era poco contenta. Abbiamo fatto un patto, non prendere nemmeno un debito a scuola, solo così avrei potuto iscrivermi ad un’agenzia. Il primo provino era per la serie televisiva di Canale 5 I liceali, ebbi molta fortuna ad ottenere quel ruolo e a conoscere Claudia Pandolfi e Giorgio Tirabassi. Entrambi mi consigliarono, vista la mia giovanissima età, di studiare presso il Centro Sperimentale di cinematografia a Roma per avere delle armi ancora più affilate, al fine di continuare con la recitazione. Ricordo che per entrare nella scuola dovetti recitare il monologo di Edward Norton dal film La 25° ora davanti allo specchio, quando mi dissero di sì ebbi una dose di autostima enorme. Iniziando a studiare anche otto ore al giorno, mi resi conto di come la recitazione non la vivevo più come sogno o passione ma come un mestiere.»
Hai mai vissuto un periodo o momento della tua vita nel quale avresti voluto cambiare drasticamente la tua strada?
«Tutti i momenti nella vita in cui ti fermi e non riesci a fare nulla sono complicati. Vivi dei periodi di sconforto in cui tutto sembra un po' aleatorio, soprattutto quando sei agli inizi. In questi casi credo mi abbia salvato la tenacia e la pazienza ma, se devo essere sincero, non ho mai vissuto un momento in cui volessi cambiare la mia rotta.»
Quale progetto ti ha coinvolto maggiormente a livello professionale, nel quale ti è sembrato di alzare l’asticella rispetto ai ruoli da te precedentemente interpretati?
«La prima volta che cominciai, senza vergogna, a definirmi attore fu quando interpretai il ruolo da protagonista nel film Il terzo tempo di Enrico Maria Artale. Certamente, quello fu il giro di boa più importante che andò a caratterizzare l’inizio della mia carriera. Dopo circa un anno e mezzo, arrivò Marco Polo, la serie Netflix di produzione americana, che vedeva me come protagonista. Una serie in lingua inglese per la quale ebbi una grande preparazione, anche perché il mio inglese non era ai massimi livelli. Da quel momento capii che potevo puntare a qualcosa di più. L’autostima aumentava ma anche l’esperienza. Si sa, dietro ai banchi di scuola si studia molto, ma la pratica la trovi solo nel lavoro, ero impegnato tre anni e recitavo sei/sette mesi all’anno per ogni stagione.»
Quando potresti definirti “arrivato” come attore?
«Non credo riuscirò mai a sentirmi davvero “arrivato”. Ho avuto la fortuna di lavorare con attori che hanno fatto davvero qualsiasi cosa e nessuno di loro mi dava questa sensazione. Parlo di Toni Servillo, Pierfrancesco Favino o Gabriel Byrne con il quale ho lavorato in Marco Polo. Non sentirsi mai completamente arrivati credo sia una cosa positiva.»
Secondo te Dolceroma è un film che è riuscito a raggiungere un pubblico ampio oppure non gli è stata data la giusta importanza? Mi spiego meglio, io credo personalmente che questo film diventerà un cult nel panorama cinematografico italiano, ma al momento penso non sia stato adeguatamente considerato e apprezzato.
«Dolceroma è un film di genere molto strano e tutto quello che cerca di discostarsi dalla nostra cultura, prettamente italiana, può essere che non venga preso seriamente in considerazione. Da qui nascono delle sostanziali difficoltà nel produrre film diversi dal “solito” cinema italiano. Un film che invece è riuscito a conservare l’anima italiana ma, anche a lanciarsi verso un immaginario molto diverso, è stato Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti. Una pellicola molto legata al territorio romano, con supereroi e una sceneggiatura di altissimo livello che è riuscita a convincere il mondo del cinema. Anche io ero convinto che Dolceroma suscitasse una forte curiosità ma non è successo perché siamo prevenuti. Se non si riesce a comprendere fino in fondo un film allora non è un granché. Sono consapevole che Dolceroma non è perfetto ma è davvero interessante sotto molti aspetti. A volte è la pigrizia che non permette di “accogliere” qualcosa di diverso dal solito.»
Dolceroma rappresenta in modo estremo le varie fasi di produzione di un film. Hai mai riscontrato, non per forza nelle tue attività lavorative, dei punti di contatto con questo film? Per te Dolceroma è provocatorio o estremamente realista?
«Sicuramente sì. Sempre più spesso i film non si concentrano tanto sul contenuto, quanto alla loro vendibilità. Basta pensare che oggi la scelta degli attori è data, alcune volte, non in base alla loro bravura, ma a quanti follower possiedono. Scelta sicuramente discutibile. Dolceroma è un film caricaturale, grottesco, esagerato e drammatizzato ma con una base totalmente verosimile. Posso solo dirti che alcuni dialoghi con Luca Barbareschi sono stati presi da esperienze vissute in prima persona. Se la serie Boris faceva satira, raccontando il set della televisione, Dolceroma vuole rappresentare in maniera esasperata il cinema italiano.»
La vita e la recitazione scorrono su dei binari paralleli, questi binari si sono mai incrociati?
«Per me sì, si sono incrociati. Mi sono sempre imposto di farli viaggiare su due binari paralleli perché fare l’attore è un mestiere che provoca stress, sia in negativo che in positivo. Fare un sacco di provini e ricevere sempre dei no può portare a sentirsi rifiutati. Se questo rifiuto lo assimili e lo trasli nella tua vita privata, diventa complicato andare avanti. Stesso discorso quando hai fortuna. Nel mio caso, prima di Marco Polo, non ero nessuno e poi sono diventato famoso (per quello che poteva essere). Io, personalmente, non mi sentivo cambiato di una virgola ma al difuori vieni visto come una persona fichissima e bellissima, quindi devi stare più attento alla percezione che gli altri hanno su di te, sia colleghi che il pubblico. Alcuni attori cadono nella trappola di diventare molto arroganti, anche perché il livello di stress è alto. Durante le riprese di Marco Polo inevitabilmente i due binari si sono incrociati. Se la tua vita sono viaggi intercontinentali in prima classe, alberghi a cinque stelle, brunch con produttori milionari, è certo che, almeno per un periodo, la tua quotidianità sarà quella. Per questo motivo ho deciso di tornare in Italia, adagiarmi su degli allori, a mio parere, fintissimi non potevano farmi stare bene dal punto di vista psicologico e fisico. La birra in piazza è certamente l’immagine più pura e semplice di ciò che sono io. Forse restare a L.A. mi avrebbe offerto più possibilità a livello lavorativo, produzioni più grandi rispetto a quello che sto facendo adesso, ma avrei anche perso molto nella mia vita privata. Bisogna sempre scegliere una strada, trovando in te stesso quell’equilibrio che ti permette di non rinunciare mai, né ad una cosa né all’altra.»
Nel film Il Talento del Calabrone hai interpretato il ruolo di un bullo, ben mascherato, dall’immagine che dà di sé alla radio. Oggi in una società dominata dai social, dall’apparenza, un attore come riesce a destreggiarsi in questo mondo che sembra sempre che lo guardi?
«Personalmente non so risponderti, posso solo dirti che trovo molte difficoltà a rapportarmici. Credo che un attore preferirebbe di gran lunga che non ci fossero. Adesso c’è una grande contaminazione nel cinema e nella televisione dettata dai social, perché sembra quasi che queste piattaforme possano aiutare. Secondo me non è così. Prima il cinema si distanzierà da queste dinamiche e prima riusciremo a riaccendere la fiamma nel cinema italiano.»
La situazione attuale ti sta permettendo di portare avanti qualche progetto lavorativo?
«Nel 2020 dovevo fare una tournée teatrale in tutta Italia, volevo farlo perché penso che sia uno di quei passaggi fondamentali che un attore debba fare. Dato che la mia storia è iniziata dal teatro volevo cimentarmi anche in questa avventura. Attualmente sono impegnato su un set di un film horror prodotto in Francia, tutto in inglese e girato da un italiano a Roma. È presente un po' di tutto.
Assolutamente, mi reputo davvero fortunato nel poter lavorare in questo momento in cui sono presenti non poche difficoltà.»
Saresti disposto a cambiare Paese per poter continuare a vivere della tua passione?
«Sì, dipende dal Paese. Devo dire che mi sento molto europeo ma non riuscirei ad abbandonare tutto per restare in Italia.»
Che consigli daresti ai giovani di oggi che vorrebbero fare della loro passione un lavoro?
«È importante pensare alle risorse che si hanno a disposizione e non concentrarsi su cosa gli altri potrebbero darti. Mettersi insieme, collaborare trovando persone che condividono i tuoi stessi interessi e provare a fare qualcosa di nuovo è essenziale. Non aspettare che gli altri ti notino per muoverti ma muoviti affinché gli altri si possano interessare a quello che stai facendo. Spesso ai giovani manca l’intraprendenza proprio perché sono sopraffatti da un sistema che vuole limitarli.»
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