Marina Occhionero:«Il teatro? Il mio mondo»
- Valentina Morena
- 22 feb 2021
- Tempo di lettura: 5 min

19 febbraio 2021
di Valentina Galdo
Diventare attrice non era un sogno nel cassetto che aveva fin da bambina. Marina Occhionero si è innamorata della recitazione semplicemente vivendola. Ricorda quando sua madre le diede un ultimatum e dovette scegliere se continuare gli studi in Filosofia o provare la strada della recitazione.
Un lavoro che le sta dando grandi soddisfazioni e che le sta permettendo di crescere e di scoprirsi. Ora il futuro del teatro, mondo in cui è nata, è incerto, ma questo non la spaventa perché è sempre pronta a cambiare le carte in tavola e a rimettersi in gioco.
Quando hai deciso di intraprendere un percorso di studio per formarti professionalmente come attrice? Cosa ti ha spinto a voler lavorare in questo settore?
«Inizialmente non volevo fare questo lavoro, sono figlia di due avvocati e volevo studiare per diventare avvocato. Però, quando è arrivato il momento di iniziare l’Università, giurisprudenza non mi convinceva e mi sono iscritta a Filosofia. Abitavo a Milano e cominciai a vedere qualche spettacolo a teatro. Era un momento in cui non mi era chiaro cosa volessi fare, allora, mia madre mi diede un ultimatum. Decisi di provare le scuole di recitazione ma senza alcuna convinzione. Quando vidi che i provini andavano bene cominciai a innamorarmi di questo mestiere.»
Dal 2014 al 2016 hai partecipato a stage, workshop, laboratori sia in Italia che all’estero. Inoltre, hai ottenuto il diploma presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvia D’Amico e sai ben quattro lingue: l’inglese, lo spagnolo, il francese e il tedesco. Puoi dirmi, secondo te, quali differenze ci sono, o ci potrebbero essere, tra un aspirante attore che decide di formarsi solo in Italia e un attore che sceglie di ampliare le sue conoscenze all’estero?
«Dipende dal tipo di lavoro che una persona fa. Il teatro di prosa, come sai, è molto legato alla parola e quindi se ci si forma all’estero inevitabilmente il tuo lavoro rimane legato alla madrelingua. È la via più facile per esprimersi, certamente. Adesso, in molte scuole, come all’Accademia Silvia d’Amico è possibile andare all’estero tramite l’Erasmus. In questo modo puoi provare a studiare un anno anche in un’altra scuola.»
Il cinema italiano permette all’attore di esprimersi? Sarò più specifica: per te gli attori e le attrici contemporanee riescono a sperimentare, proporre e magari osare all’interno di un film o sono di più “accompagnati” dal volere del regista?
«Diciamo che dipende dalla relazione che si instaura fra il regista e l’attore. Una relazione che ha mille sfaccettature può essere vissuta in mille modi diversi. Può capitare che alcuni registi hanno un’idea ben precisa di ciò che si aspettano dall’interprete e vogliono che egli si avvicini il più possibile a quell’idea. Altri preferiscono arrivare con una visione più ampia e farsi ispirare da quello che l’attore vorrebbe portare. Il risultato del lavoro è dato dall’incontro delle due idee. Spesso può capitare che il riscontro che il regista ha da fuori non viene percepito dall’attore o lo percepisce in modo diverso.
La differenza con l’estero è una maggiore responsabilità da parte dell’attore di ciò che porta in scena. In Italia, c’è una concezione di teatro e di regia molto forte, mentre all’estero, invece, è richiesta una maggiore “autorialità”. L’attore deve essere sia autore che regista di sé stesso. Questa cosa l’ho riscontrata in Francia, dove ho lavorato molto.»
Sei per la prima volta sullo schermo nel film Il nome del figlio di Francesca Archibugi. Regista e sceneggiatrice che ha ricevuto non pochi riconoscimenti, tra cui David di Dontello, Nastri d’argento e Ciak d’oro. Una donna che riesce con le sue opere a trasmettere, a mio parere, le emozioni, la determinazione ma anche le fragilità delle donne. Quanto può essere frustrante per una donna cercare di esprimere sé stessa in una società che, a volte, sembra porre degli ostacoli sul suo cammino? Ti è mai capitato di vivere una situazione del genere in prima persona? Oppure hai ascoltato qualcuno che aveva difficoltà?
«Per quella che è stata la mia esperienza fino ad ora, devo dire, molto felice. Ho avuto la fortuna di incontrare colleghi, soprattutto registi, con un grandissimo rispetto per il mio lavoro. Gli scontri non vertevano mai su questo tema, anzi, mi sono sentita sempre tutelata e rispettata sia nel cinema che nel teatro. Intorno a me ho potuto notare che c’è difficoltà per le giovani ragazze che si vogliono approcciare alla regia o aiuto regia teatrale. C’è diffidenza soprattutto da certi attori più anziani che non avevano mai lavorato con un aiuto regia che non fosse un uomo. È un campo in cui c’è ancora da lavorare. Se pensi, non c’è nessuna donna che dirige un teatro, a parte rarissimi casi. Recentemente è nata un’associazione Amleta che tutela i diritti delle lavoratrici. E senza dubbio è un problema sentito.»
Nel film L’età imperfetta di Ulisse Lendaro interpreti Camilla, aspirante ballerina di danza classica che ad un certo punto della sua vita conosce Sara. Due personalità completamente opposte: da un lato il tuo personaggio dedito allo studio e allo sport, dall’altro Sara, una ragazza che, come Camilla, vuole coronare il sogno di diventare ballerina ma non per questo vuole rinunciare a ciò che la giovinezza può offrirle. Per te Camilla, grazie alla conoscenza di Sara, riesce a scoprirsi davvero come giovane donna, a tirare fuori il suo vero io, oppure l’influenza dell’amica la allontana un po' da ciò che è lei veramente?
«Penso sia come nella vita. Le persone non ti cambiano mai ma ti fanno scoprire delle parti di te che non conoscevi e che, magari, ti facevano paura. È quello che accade nel film, in particolare a Camilla quando conosce Sara. Fra loro si crea una connessione importante e questa la porta ad incontrare lati del suo carattere fino a quel momento sconosciuti. Nel finale, come diceva il regista Ulisse Lendaro, c’è una sorta di discesa agli inferi dove scopri delle parti buie di te stesso, ma che però fanno parte del tuo percorso di crescita.»
Hai vinto nel 2018 il Premio Kineo come giovani rivelazioni e il Premio come miglior attrice al Terni Film Festival. Sei sicuramente una promessa nel cinema italiano. Con quali registe e registi ti piacerebbe poter lavorare? Attualmente sei impegnata in qualche progetto?
«Ci sono dei registi che mi interessano molto, ad esempio i Fratelli D’Innocenzo con i quali mi piacerebbe poter lavorare. Anche la regia di Giorgio Diritti mi affascina molto. Mi auguro di poter incontrare registi che, sicuramente, mi farebbero crescere e capire tante cose.
In questo momento sto lavorando al Teatro Due di Parma, è una specie di incrocio fra teatro e cinema. Per farti capire, facciamo degli spettacoli ripresi da una regista, dato che non potranno andare in scena. A breve inizierò le prove all’Emilia Romagna Teatro con la regia di Fausto Russo Alesi per un testo che si chi chiama Padri e figli. Anche in questo caso, non sappiamo se riusciremo a debuttare ad aprile vista la situazione. Siamo in attesa di capire cosa accadrà, è un momento in cui fare progetti non è semplice.»
Tutti ci siamo un po' concentrati su noi stessi. Stando a casa sono venute a galla fragilità ma, in alcuni casi, anche punti di forza. Cosa hai imparato da questa pandemia?
«Ho imparato che potrei fare un sacco di cose. Ho lavorato in un’azienda agricola e per fortuna nessuno attorno a me è stato colpito dalla malattia. Ne sono uscita con leggerezza e con la consapevolezza di amare moltissimo il mio lavoro ma che riuscirei ad esistere anche senza. Da un lato mi sono sentita sollevata, dall’altro mi manca il contatto che è la base del nostro lavoro e l’incontro con il pubblico.
Sono fiduciosa che avrà un significato ancora maggiore quando si potrà ritornare a lavorare come un tempo. L’unica cosa che vorrei è darmi spazio anche come creatrice, poter scrivere, oltre che recitare sarebbe davvero gratificante. Poi le declinazioni nel teatro e nel cinema sono infinite, posso solo dire che il teatro è il mondo in cui sono nata, in cui ho imparato e dove mi muovo meglio. Forse quello sarà il mio futuro, ma sono sempre pronta a farmi cambiare le carte in tavola e a mettermi nuovamente in gioco.»
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