Matteo Gatta:«L'arte di crearsi un futuro.»
- Valentina Morena
- 1 mar 2021
- Tempo di lettura: 6 min
24 febbraio 2021
di Valentina Galdo

Matteo Gatta non puoi definirlo, etichettarlo, relegarlo in un solo ed unico mestiere. In un modo o nell’altro riuscirà a liberarsi e a sorprendere tutti. Se alcuni di voi l’hanno visto per la prima volta in Est, di Antonio Pisu, la formazione e la carriera di Matteo inizia già anni prima. È alle superiori quando grazie al progetto “non-scuola” si avvicina al mondo del teatro, ma è con il Piccolo Teatro di Milano che la sua formazione artistica ha inizio. Quando gli chiedi se qualcuno l’ha ispirato, risponde che non riesce a dare il merito ad una sola persona. Anzi, ringrazia tutti quegli artisti che ha avuto l’onore di incontrare durante il suo cammino. Un percorso ancora lungo ma che a soli 25 anni vanta tantissime soddisfazioni. E come ci tiene a ricordarmi Matteo: “Da gioie improvvise derivano improvvisi dolori”. Più le cose le ottieni in fretta e più in fretta le perderai, se le costruisci sarà più difficile perderle.
Sei un attore giovanissimo, hai 25 anni. Raccontami un po' del tuo percorso e della tua formazione.
«Si può dire che la mia formazione è durata per tutto il periodo delle superiori. Tramite il progetto “non scuola” ho partecipato a laboratori teatrali grazie al Teatro delle Albe di Ravenna. Terminato il liceo classico non avevo dubbi su quello che avrei voluto fare. Dopo diverse richieste per potermi iscrivere alle scuole teatrali, e dopo alcuni rifiuti, vengo accettato al Piccolo Teatro di Milano. La soddisfazione è stata immensa. Terminata la formazione ho avuto alcuni provini fortunati e sono entrato in una compagnia teatrale chiamata Idiot Savant con cui tutt’ora lavoro.»
Quanto desideravi poter essere all’interno del Piccolo Teatro di Milano?
«Desideravo tantissimo poter studiare in questa scuola, era la mia prima scelta se devo essere onesto. Sono entrato quando era ancora gestita da Luca Ronconi e, dopo la sua morte, è stato sostituito con Carmelo Rifici. La gestione rimane sempre incredibile e offre una formazione di altissimo livello. Studiare otto ore al giorno era stupendo, un vero paradiso.»
Puoi dirmi chi ti ha ispirato di più in questo tuo percorso? Per te questa persona può aver indirizzato il tuo interesse verso un settore piuttosto che un altro?
«Non c’è solo una persona che ha influenzato il mio percorso. Mi hanno sicuramente trasmesso la passione per il teatro Marco Martinelli e Ermanna Montanari, i due fondatori del Teatro delle Albe, e Mario Battaglia, regista di una piccola compagnia filodrammatica di Ravenna. Mentre la “cifra” artistica comincia a delinearsi durante un laboratorio della Biennale di Venezia del 2016. Ho avuto la fortuna di conoscere Pascal Lambert, regista e drammaturgo francese, che mi ha fatto avvicinare al mondo della scrittura. Cosa che prima di quel momento non avevo mai provato. Pascal è stato per me come una stella polare.»
Nel 2020 sei per la prima volta sul grande schermo nel film di Antonio Pisu Est- Dittatura Last Minute nel ruolo di Pago. La pellicola ha aperto la 17esima edizione delle Giornate degli Autori alla 77° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Sei ancora ad inizio carriera e hai certamente la possibilità di scegliere che strada intraprendere. Tra lavorare a teatro ed essere su un set, cosa ti ha arricchito di più? Non solo a livello emotivo, ma anche professionale.
«L’esperienza sul set è stata bellissima soprattutto grazie al rapporto che si è creato con Jacopo Costantini, Lodo Guenzi e il regista Antonio Pisu. Un’amicizia incredibile che ci ha permesso di lavorare ma anche di divertirci durante le riprese. Purtroppo non sono un grande appassionato di cinema ma credo che comprenderlo dall’interno può essere molto interessante. Inoltre, il set mi ha permesso di scoprirmi di più. Questo è fondamentale perché al rientro sul palcoscenico sono diverso e forse anche maggiormente strutturato. A livello professionale, il lavoro sul set è decisamente differente. Devi essere in grado di “accenderti” e “spegnerti” in pochissimo tempo, date le frequenti pause che il lavoro richiede. È tutto molto sincopato e questo fa sì che tu debba conservare più energie possibili. Il cinema è un lavoro di squadra e il merito, oltre che agli interpreti, va maggiormente a chi non si vede, a chi lavora dietro le quinte. È una macchina pazzesca, c’è molta tecnica e l’attore ha un ruolo più contingentato. Se pensi, quando un attore recita male una scena, può ripeterla molte volte e se viene male ci sarà sempre qualcuno che grazie al montaggio o alla fotografia corregge l’errore. Quell’occhio meccanico che ti guarda l’ho trovato davvero invadente e devo dirti che ho riscontrato alcune difficoltà ad abituarmici. È pazzesca come questa invasione della privacy sia accettata e resa organica. Il merito va sicuramente all’attore che riesce ad entrare in quegli stati d’animo così profondi come se fosse da solo. È questa la magia del cinema ma, è indubbio, che la mia passione rimane il teatro.»
Secondo me Est non si concentra eccessivamente sulle caratteristiche dei tre protagonisti. È come se Pago, Rici e Bibi facessero da “tramite” nella storia in funzione della storia stessa. Mi sbaglio?
«Lo spettatore grazie agli occhi dei protagonisti riesce a creare dei “collegamenti” tra l’Italia e la Romania. L’obiettivo di Antonio era ricordare al pubblico che questa cosa, che sembra così lontana, è in realtà incredibilmente vicina. Ciò che dici è corretto, i personaggi sono la colonna portante del film ma poi la protagonista è la storia. Pago, l’io narrante, è il più misterioso di tutti e tre e non capisci perché ha deciso di intraprendere questa avventura e cosa gli abbia lasciato. È come se il mio personaggio quando è a casa sta male e, nel viaggio, riesce a trovare un modo per non dare per scontato ciò che ha nella sua vita. Mi sentivo molto in sintonia con Pago. Se lui ricerca un suo equilibrio fuori, io lo cerco da dentro tramite il teatro.»
Nel 2018, sei stato anche sceneggiatore e attore in AMORE per il quale vinci il bando #pillole2019 del Teatro Studio Uno di Tor Pignattara. Che dire, ti stai sicuramente formando a 360° in questo settore artistico con considerevoli soddisfazioni. Questa tua inclinazione artistica da dove nasce?
«Parte tutto da me, mia mamma è un medico mentre mio papà un professore. Tutt’ora ci stiamo chiedendo in famiglia da dove arriva questa mia vena artistica. Io l’ho vissuta come una specie di “febbre”, sentivo di aver bisogno di stare sul palcoscenico. Il teatro è l’unico posto dove puoi esprimere cose che nella vita non puoi esprimere. Forse per questo ne sono così attratto.»
Il 2020 non è stato un anno facile, so che dovevi avere undici repliche dello spettacolo AMORE. Innanzitutto, raccontami un po' della sceneggiatura e da dove hai trovato l’ispirazione. Inoltre ti chiedo, ora che il futuro del teatro è incerto, quanto pensi che questa condizione potrà andare a influenzare le tue scelte avvenire?
«Allora, AMORE nasce in maniera molto strana. Quando studiavo al Piccolo Teatro la mia ragazza era una mia compagnia di classe. Fra di noi si era creato un rapporto molto complicato, c’era tantissimo affetto ma anche l’incapacità di dimostrarcelo. Quella relazione mi occupava la testa dalla mattina alla sera, non avevo mai provato un’emozione del genere. Decisi, dunque, di scrivere alcune scene ma senza un intento ben preciso. Dopo un po' mi accorsi che le scene diventavano sempre di più e questa “storia” cominciava a prendere vita. Contattai due amici e coinvolsi anche la mia ragazza. Decidemmo di candidare la sceneggiatura al concorso #pillole2019 e riuscimmo a vincere. Ci hanno finanziato e prodotto. Siamo riusciti a fare cinque repliche a Roma ma poi è arrivato il disastro.
In questo momento, nel teatro, sono in piedi tantissimi progetti, e questo fa sì che quando tutto riprenderà non si saprà bene a cosa dare la priorità. Ora ti ritrovi a pensare seriamente se ciò che vuoi fare ne varrà la pena e se sei disposto a dare tanto del tuo tempo in un progetto. Per di più, il sistema ha messo in ginocchio tanti lavoratori che sono stati costretti a ricominciare, anche in mestieri diversi. Si sa, l’investimento alla cultura è poco e non c’è molto spazio per i piccoli teatri. Ma questo è un errore perché l’arte ha bisogno di esprimersi sempre e comunque, grande o piccola che sia. Questa situazione sta portando moltissimi attori a lasciare il teatro. Quando accade una cosa del genere, a meno che la persona non abbia trovato un’altra passione, è come se qualcosa gli morisse dentro. Ciò che fa smettere agli artisti di lavorare è una perdita di fiducia nel sistema. Se prima del COVID la cultura non aveva gran voce, con la pandemia la situazione è decisamente peggiorata. Io, però, non voglio perdere la speranza nel cambiamento.»
Progetti?
«In questo momento, assieme ad un amico di Ravenna e Mauro Lamantia (protagonista nell’ultimo film di Paolo Virzì, Notti magiche) stiamo preparando uno spettacolo sulla figura di Antonio Gramsci, sotto la mia regia. Sto preparando un monologo per candidarlo ad alcuni premi. Credo che l’importante sia rimanere attivi per non spegnersi, in questo mestiere è fondamentale. L’unica cosa è che bisogna stare attenti a non farsi prendere da troppi progetti, anche perché non sai se tutti potranno vedere la luce.»
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